“Il Giudizio”, l’esperienza di vita della studentessa irpina Daniela Favodiano
Pubblicato in data: 17/2/2025 alle ore:09:30 • Categoria: Cultura •
Vengo da un piccolo, piccolissimo, paesino dell’entroterra campano e, in questo piccolo spazio circondato da montagne, il giudizio trova vita, si riproduce, si alimenta, si annoda e si sgroviglia, cresce rumorosamente e distrattamente si assopisce. Rispetto al giudizio nasco come ascoltatrice: ricordo chiaramente le anziane signore del mio paese che lietamente si lasciavano andare ai giudizi sui passanti, sulle compagne ormai passate a miglior vita, sui loro stessi parenti. Quanto ho ascoltato da persone adulte che portavano sulle spalle il peso di gran parte della loro vita, quanto mi sembrava avessi da imparare! Il giudizio soddisfa palati amari, bocche voraci, ma stomaci sazi e questo me lo ha insegnato proprio la terra di cui mi sento figlia e a cui, in qualche modo, devo riconoscenza perché nei luoghi a me estranei, dove le regole non sono mai state davvero difformi, io conoscevo già il regolamento. Regolamento alla cui perseverante applicazione ho certamente contribuito: ho giudicato, sì, l’ho fatto. Il giudizio rallegra le serate e quando trova spazio tra le parole dà un’immediata sensazione di soddisfazione, ma poi? Poi cosa lascia? Lo strascico è il senso di colpa, ogni singola parola, che sembra così dannatamente leggera sulle labbra, lascia lo sporco intorno e, esso tutto, si deposita sulla pelle, sulle labbra, sull’anima e ti inacidisce.
Il giudizio, io, lo conosco e proprio per questo, oggi, non più con la facilità di un tempo, incrocia la mia strada. Conoscerlo significa prenderne le distanze. Arrivare a conoscerlo significa aver sentito il senso di colpa di cui parlavo, quello che ti fa sorgere la prima domanda rivelatrice della natura del giudizio: ne sapevo abbastanza per lasciarmi andare a quelle frasi che possono essere soltanto o sentenziose o frivole? E la risposta è sempre “no”. Non ne so mai abbastanza: io non ho indossato quella pelle, io non ho vissuto quella vita, io non ho represso quelle lacrime, io non ho forzato quei sorrisi, io non ho portato il peso di quell’armatura, io non ho finto quella leggerezza, io non rivestito i suoi ruoli, io non sono l’altro. Per arrivare a vedere il giudizio di fronte a me, e non accanto a me, ho teso e afferrato la mano innanzitutto alla sensibilità: questa mi ha permesso di riconoscere a ciascuno il diritto di decidere le regole della propria vita. Ho preso le distanze dal giudizio grazie alla potenza delle pagine dei libri che ho letto, alla meraviglia che ho assaporato nelle persone che ho incontrato, all’amore che ho scoperto di avere per diritto che è per me madre accogliente. Ho preso le distanze dal giudizio quando, di fronte ad esso, mi son detta: e se fosse successo a me? Ed infatti, ne ho preso le distanze anche quando il giudizio, tante, tantissime volte, si è riversato come una valanga su di me. Se mi guardo indietro mi rendo conto che non sono mai piaciuta molto agli altri, ma per me, questo, non è mai stato motivo di dispiacere e ne sono grata. Sono grata perché so bastare a me stessa; è stato così da sempre e non c’è mai stato un motivo ben preciso. Non piacere agli altri mi ha portato ad essere tante volte vittima di giudizio, ma non ne ho mai sofferto. Se giudicare mi faceva, e mi fa, sentire in colpa, essere giudicata mi fa solo tanto dispiacere, non per me- come potrebbe mai scalfire quello che sono la supponenza di un estraneo? La mia intima natura risponderà sempre e solo al mio, di giudizio- ma per la persona dalla quale il giudizio proviene perché, senza che essa se ne renda conto, questo la impoverisce. Il giudizio è vile: ti conduce sulla via della frivolezza e ti costringe a lasciar indietro la ponderazione, perdi la rotta verso la comprensione, impari a riconoscere i tuoi limiti come fossero mantra ai quali mantenere fede, gli unici che indichino il modo giusto di fare e non fare. Posso riportare qui un evento che mi è accaduto: una ragazza, che frequentava la mia stessa scuola e che, per screzi vari, mi è sempre stata ostile, fece un commento su di me convinta che io non potessi sentirla e disse: “questa si mette sempre le stesse scarpe”. All’ascolto di quelle parole provai dispiacere per lei, per l’insensibilità che aleggiava nel suo cuore, e per una qualsiasi altra ragazza che, se fosse stata al mio posto, avrebbe sofferto sentendosi attraversata, investita, quel giudizio lacerante. Sono una ragazza fortunata: posseggo più di un paio di scarpe. Ho immensa gratitudine per miei genitori perché mi hanno insegnato il sacrificio dietro il lavoro, ho imparato a riconoscere, senza mai dimenticarmene, il valore di tutto quello che ho, che sia una matita da cinquanta centesimi che sia un paio di scarpe in più. Non tutti sono fortunati come me, ci sono ragazzi che, di paia di scarpe, ne hanno soltanto uno e, magari, dietro questo, c’è un genitore che ha dovuto scegliere se acquistare il paio di scarpe all’un figlio oppure i pantaloni all’altro che pure ne aveva bisogno.
È accaduto poi che la ragazza che ha fatto il commento oggi ha un bambino, è diventata madre a 18 anni, e il giudizio è un urgano: se ci stai vicino, la corrente inevitabilmente ti trascina dentro ed è assai faticoso uscire dalla spirale. Con questo voglio dire che per me sarebbe stato più semplice giudicarla a mia volta: “guarda questa ha fatto un figlio a 18 anni, senza alcuna stabilità economica, e per di più è ancora lei una bambina”. Quanto sarebbe stato semplice? Tanto, ma non mi sono lasciata andare. Ecco perché, io, auguro a quella mamma di avere un lavoro che le permetta di soddisfare i bisogni di suo figlio sempre, di non avere rimpianti quando suo figlio sarà un adulto; insomma, le auguro di non conoscere mai il dolore che solo una mamma può provare quando è costretta a dire no ad un paio di scarpe perché è più importante sfamarli, i figli. Le auguro di non trovarsi davanti a queste scelte perché il cuore le si lacererebbe come quello della ragazza, che al mio posto, avrebbe visto umiliata la sua mamma, quella mamma che forse lavora di notte, forse lavora a nero, forse è malata, ma fa di tutto per sua figlia e questa lo sa bene e a caro prezzo.
Esperienza di vita di Daniela Favodiano
Studentessa alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Salerno
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